UNA VITA COME TANTE (A LITTLE LIFE)
A pochi giorni dall’uscita di Verso il paradiso, Hanya Yanagihara prepara il terreno: il romanzo che l’ha portata alla ribalta, tra i più venduti e amati degli ultimi tre anni, torna a occupare le prime posizioni della classifica delle vendite settimanali. Era il 2015 quando la scrittrice statunitense di origini hawaiane pubblicava il suo secondo romanzo, con un titolo assolutamente catchy: A Little Life, tradotto in italiano con Una vita come tante. Ogni curioso lettore è stato immediatamente rapito, sentendosi in qualche modo chiamato in causa da questo librone, la cui mole componeva un affascinante ossimoro se accostato al titolo, così poco ingombrante. Ed è già tutto qui il primo messaggio di Yanagihara: ci vuole tanto spazio, tanta carta e tanto tempo per raccontare una vita tra le tante. Se vogliamo spingerci oltre e vogliamo credere alla fisionomica, la “faccia” in copertina ci aveva già promesso tutto: una foto diventata emblematica, una smorfia di dolore su un volto.
L’operazione di confezionamento funziona, ma non basta questo: i lettori non si limitano ad acquistare il libro per abbandonarlo agli acari della polvere, soddisfatti di aver collezionato l’ennesimo volume che fa scena. Diversamente, lo leggono, lo divorano, lo soffrono.
Una vita come tante si racconta sullo sfondo di una fervida e sontuosa New York, dove quattro ragazzi, ex compagni di college, si sono trasferiti dal New England. A sostenerli in questa transizione, la loro amicizia. Un romanzo moderno con la ricchezza dell’Ottocento, dolce ma brutale allo stesso tempo. Ma se fosse troppo brutale?
TRA DRAMMATIZZAZIONE E PORNOGRAFIA DEL DOLORE
Una vita come tante è stato non solo uno dei libri più letti, amati e commentati degli ultimi anni, ma anche uno di quelli che hanno più profondamente scosso il pubblico, suscitando di frequente reazioni emotive forti. In questo modo, Yanagihara è diventata famosa per una componente specifica della sua narrativa, che si ritrova anche nel suo primo romanzo Il popolo degli alberi: il dolore.
Non siamo nuovi alla pratica di ricercare una certa rappresentazione della sofferenza in tutte le sue declinazioni all’interno di opere di finzione, ma il caso Yanagihara è stato così eclatante da accendere un dibattito estremamente interessante: mentre i sostenitori della scrittrice reputano le sue opere una rappresentazione tanto dura quanto sincera di un tempo e una generazione di disillusione, i suoi detrattori hanno scomodato una terminologia pericolosa, arrivando a parlare di “pornografia del dolore”. Con questa locuzione si intende una rappresentazione della sofferenza e del dolore spinta all’estremo, tanto da risultare inverosimile e forzata, ma ricca di appeal per un pubblico di voyeur. I lettori di Una vita come tante, in sostanza, trarrebbero piacere dalla sofferenza esagerata raccontata da Yanagihara.
Se da un lato non è totalmente da accantonare l’obiezione secondo la quale queste storie siano fin troppo tinte di blu, è vero anche che il terreno della fiction funziona proprio in quanto aperto alla verosimiglianza e all’iperbole, nella quale è possibile accettare l’eccesso della situazione per apprezzare l’umanità profonda che caratterizza i personaggi alle prese con tali dolori. Quel che sia la vostra opinione su Yanagihara, va riconosciuto il merito di aver mosso non solo numeri, ma pensieri, idee, sentimenti.